
A cento anni dalla prima pubblicazione, LaFilanda di Mendrisio dedica una serata speciale alla raccolta di poesie “Ossi di seppia” (1925) di Eugenio Montale (Genova 1896 – Milano 1981). Questa opera ha profondamente inciso nella cultura del Novecento, come ricorda il professor Francesco Bianchi che approfondirà la figura del poeta e il “male di vivere” nel contesto dell’incontro di cui sarà relatore giovedì 8 maggio alle 20.
L’importanza dell’opera sarà rilevata dal profilo tematico – la disarmonia, quel male di vivere per sfuggire al quale troviamo la costante ricerca di un varco, di una maglia rotta – ma anche dal punto di vista linguistico: Eugenio Montale, insignito del Premio Nobel per la letteratura nel 1975, privilegia una poesia che ritrae la dissonanza con il mondo e si affida a parole lontane dalla tradizione, spesso scabre o aspre, legate agli oggetti-simbolo che rappresentano i temi esistenziali.
La riflessione prenderà le mosse dal titolo: gli ossi di seppia sono residui calcarei di molluschi, rigettati dal mare, che raffigurano il senso di esclusione dalla natura e dalla felicità. Sono comunque simbolo di piccoli eventi, anch’essi scartati, che tuttavia possono condurre a una scoperta.
Una frase dell’autore, divenuta celebre, recita: “La poesia non è strumento per conoscere la realtà, ma è solo ricerca e mai raggiungimento della verità”.
Le letture dei testi selezionati saranno affidate alle voci di Maria Luisa Cregut, Francesco Crescimanno e Roberto Regazzoni.
“Ossi di seppia” esce nel periodo in cui, in Italia, il fascismo sta prendendo piede, con le sue certezze; la poesia montaliana risponde con le parole “Non chiederci la parola che squadri da ogni lato l’animo nostro informe”.
La fotografia della poesia di Montale – ricorda il prof. Bianchi – è simboleggiata dall’immagine “qualche storta sillaba e secca come un ramo”: non una poesia elegante e magniloquente come in Gabriele D’Annunzio, bensì aspra ed essenziale.
Il rapporto di Eugenio Montale con la natura è duplice: il mare come luogo felice e incontaminato, la terra come luogo problematico e di esclusione. Si torna all’immagine degli ossi di seppia, come simbolo dell’esclusione da una condizione beata. Però – continua il relatore – sono anche una metafora che spiega l’esistenza stessa della poetica montaliana. La poesia di Montale è la poesia del male di vivere, ma anche della ricerca di un varco, uno spiraglio per riuscire a uscirne. Nella poesia “I limoni” ricorrono queste rappresentazioni: “l’anello che non tiene”, “il filo da disbrogliare”.
L’autore si allontana, per sua ammissione, dai poeti laureati. Per spiegare il distacco dalla tradizione, Montale dedica i suoi versi a un uccello, l’upupa, calunniato da poeti come Ugo Foscolo e Giuseppe Parini, rivalutandolo e trasformandolo in un “nunzio primaverile”.
Tra le letture che verranno proposte durante l’incontro dell’8 maggio al centro culturale LaFilanda di Mendrisio spicca la poesia che inizia con il noto verso “Meriggiare pallido e assorto”: “sembra una poesia di descrizione della natura – osserva Francesco Bianchi – ma non lo è affatto”. È eccezionale dal punto di vista fonologico: “schiocchi di merli”, “frusci di serpi”. Montale sembra dirci: tutto questo osservare la natura, ti fa capire com’è la vita: “seguitare una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia”.
La serata permetterà di affrontare infine anche la tematica del ricordo che ricorre nella poesia di Montale.