“Una fortuna aver messo tutto in due valigie”

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A cavallo. Enrico Berkes, con la moglie Catherine. Partito per un dottorato, è diventato professore di economia in un’università pubblica nel Maryland, “poco lontano da dove la mia avventura americana era cominciata 15 anni fa...”.

Prosegue con una nuova storia la rubrica de l’Informatore intitolata Lontano, lontano e dedicata a chi, ad un certo punto della propria vita, ha lasciato – per caso o per scelta – il Mendrisiotto. Dopo la Nuova Zelanda conquistata da Jarmo Crivelli, originario di Balerna, ecco la vicenda di un altro “momò” nato e cresciuto a Mendrisio ed espatriato in America, nel Maryland. Parliamo di Enrico Berkes, che ha accettato di raccontare la sua emigrazione a distanza di Atlantico avvenuta a 26 anni. Oggi ne ha 41. Lo abbiamo raggiunto via e-mail. Gli abbiamo posto poche domande, lui, generosamente, ci ha aperto il suo mondo, dall’altra parte dell’oceano.

“La decisione di emigrare negli Stati Uniti? È avvenuta, come spesso accade, un po’ per caso. Stavo completando un Master in economia internazionale a Ginevra e uno dei miei relatori di tesi mi ha informato che esisteva una possibilità di lavoro al Fondo Monetario Internazionale a Washington DC, dove cercavano un assistente di ricerca con un profilo simile al mio. Quattro mesi più tardi mi trovavo su un aereo verso un nuovo lavoro, un nuovo continente e una nuova avventura. L’incarico era temporaneo così come, pensavo, sarebbe stato il mio soggiorno statunitense. Prima di partire avevo lasciato alcuni mobili in cantina di amici, sicuro che li avrei presto ripresi. Evidentemente non è stato cosi”.

Poi, qual è stato l’elemento che l’ha convinta a restare?
“Gli economisti con cui lavoravo mi spronarono a postulare per un dottorato negli Stati Uniti. E così feci. Mi accettarono per un dottorato in economia alla Northwestern University in Evanston, un sobborgo appena a nord di Chicago. Lì ho completato i miei studi e, tramite un amico comune, ho incontrato Catherine, che alcuni anni dopo sarebbe diventata mia moglie. Nel 2018 ho trovato una posizione come post-doc in Ohio, un po’ complicata a causa dell’arrivo della pandemia. E due anni fa sono stato assunto come professore di economia in una università pubblica nel Maryland, poco lontano da dove la mia avventura americana era cominciata. Quasi 15 anni dopo quel primo volo verso Washington DC, tre mesi fa ho finalmente ottenuto la cittadinanza americana”.

Riesce a tornare a Mendrisio, nella sua città natìa?
“La flessibilità di un lavoro accademico mi permette di tornare a Mendrisio relativamente spesso. Quando riusciamo, torniamo una o due volte all’anno per alcune settimane. Oggi come oggi è relativamente facile mantenere i contatti con persone che sono distanti. La barriera più grande è forse il fuso orario che può richiedere un po’ di coordinazione da entrambe le parti. Il fatto di tornare regolarmente, ma per periodi di tempo limitati, permette a tutti di trascorrere più intensamente il tempo che si passa assieme”.

Quali sono le differenze di maggior rilievo tra la vita nel Mendrisiotto e quella in America?
“È difficile dire quali siano le differenze più sostanziali tra la vita a Mendrisio, o più generalmente in Svizzera, e quella negli Stati Uniti. Da un lato, ho lasciato la Svizzera da studente e ho vissuto gli Stati Uniti da adulto. Dall’altro, gli Stati Uniti stessi sono profondamente cambiati rispetto a 15 anni fa, quando Barack Obama era ancora presidente. Posso dire che le cose che mi mancano di più del Ticino sono forse le montagne, il cibo, e un’infrastruttura e amministrazione pubbliche funzionanti. Quello che forse apprezzo maggiormente della cultura oltre oceano è che in generale mi sembra in qualche modo meno rigida o legata a schemi tradizionali. Per esempio, ci si sofferma meno su come una persona si veste o si pone e i rapporti lavorativi tendono ad essere meno verticali: gli universitari spesso danno del tu (“first-name basis”) ai professori e le gerarchie professionali e accademiche certamente esistono, ma le persone sono più approcciabili a tutti i livelli”.

Quale bilancio trae dalla sua esperienza?
“Il bilancio dell’esperienza non può essere che positivo. Dopo tutto è difficile sapere come sarebbero andate le cose se non fossi partito 15 anni fa. Per quel che mi riguarda è stata una fortuna aver avuto la possibilità di mettere tutto in due valigie e lasciarmi sorprendere. Partire per un Paese nuovo con una conoscenza della lingua un po’ sgangherata e pochi contatti dà un certo senso di libertà. Una cosa è sicura: c’è tanto da imparare là fuori, non solo sugli altri, ma anche su noi stessi. Confrontarci con altre realtà e altre visioni del mondo permette anche di tornare indietro e apprezzare con occhi diversi dinamiche, luoghi e persone che magari si erano date un po’ per scontate. È stata anche una fortuna poter contare su buoni amici e famiglia. Come per i marinai, è più facile navigare attorno al mondo quando si sa che c’è un porto sicuro dove poter tornare a ristorarsi”.