L’OSC di Mendrisio dentro un film

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Il viale del parco all'OSC di Mendrisio.

Casvegno. L’ONC. Mendrisio. Ul Manicomi. Basta un nome, un toponimo per dire Organizzazione sociopsichiatrica cantonale (OSC), nella sua definizione istituzionale. Una presenza radicata nel territorio e nella memoria dei suoi abitanti che val bene un film documentario. Bruno Bergomi, 200 documentari e migliaia di servizi giornalistici prodotti per la RSI in tanti anni, membro del Film Festival dei diritti umani di Lugano, firma ora la regia di un nuovo lavoro appena concluso che racchiude oltre mezzo secolo della storia e dell’evoluzione della psichiatria pubblica, prodotto da Vito Robbiani di mediaTREE (produttrice esecutiva Giuliana Zogg Ghielmini) dopo che il progetto è stato accolto dal Pacte de l’audiovisuel. “Il montaggio è terminato, manca solo la postlavorazione” – dice con la gioia negli occhi l’autore.
Come nasce l’idea? “Era il documentario che avevo in testa da lungo tempo. Sono cresciuto a Mendrisio, vicino all’Ospedale neuropsichiatrico cantonale, sempre chiamato manicomio per noi, sin da bambini, proprio perché la nostra azienda agricola di famiglia vi confinava. Mi sarebbe piaciuto girare questo film con il grande regista Mohammed Soudani, con lui una quindicina di anni fa siamo stati ospitati per parlare di cinema e televisione al Club 74, associazione di socioterapia dell’OSC e quando Soudani mi ha sentito parlare di quanto, sin da bambino, conoscevo così bene questo luogo, ha detto che avremmo dovuto realizzarne un documentario, un sodalizio che poi per diverse ragioni purtroppo non è avvenuto”.
Dunque, un solo regista. “Sì, per iniziare mi sono confrontato con il direttore dell’OSC, Daniele Intraina, che si è subito mostrato entusiasta dell’idea, e che naturalmente ho incluso nel filmato”. Ma il documentario si nutre soprattutto di memoria. “Esatto. Soprattutto attinta dalla mia infanzia. Quando ero piccolo, parlo della fine degli anni Cinquanta-inizio Sessanta, l’Ospedale psichiatrico era completamente recintato da una rete metallica di due-tre metri. Si poteva entrare solo dalla portineria, che è poi stata abbattuta. È cambiato molto. Io servivo messa nella chiesetta dell’OSC e in virtù del fatto che fossi piccolo potevo sconfinare all’interno del Parco al quale sono sempre stato molto legato. Per me la gente dentro era uguale a quella fuori, senza distinzione. Vivevo senza stereotipi che ho poi scoperto invece da adolescente, quando i miei compagni indicavano il luogo avvicinando l’indice alla tempia”.
Chi compare nel documentario? “Ho incontrato e intervistato tante persone – ex infermieri, tra cui Willy Lubrini e Giovanna Poletti, che hanno lavorato quarant’anni all’OSC e che ne testimoniano le diverse fasi; medici; lo psichiatra e psicoterapeuta Graziano Martignoni, che ha lavorato diversi anni a Casvegno; alcuni animatori. Le interviste sono “autoportanti” e in successione. Per pochi attimi anch’io figuro nel documentario, soltanto per il racconto di alcuni episodi. Le persone intervistate, molto qualificate sul tema del disagio psichico, tracciano l’evoluzione della psichiatria su un ampio arco temporale di oltre mezzo secolo. I pazienti in passato non avevano nessun diritto, veniva praticato l’elettroshock, finché non è intervenuta una graduale apertura dell’OSC e al contempo un progresso medico e sociale, con la nascita del Club 74. Nel filmato c’è anche la testimonianza toccante di una paziente, finita in manicomio tra i 16 e i 20 anni per quattro anni solo perché era una “ribelle” ma che non aveva nessun disturbo psichiatrico”. Come viene affrontato il tema del disagio psichico? “Tra i diversi interlocutori che ho interpellato emerge chiaro come denominatore comune che ciò che permette di cambiare le cose è la relazione umana. La socioterapia, la relazione tra animatori, assistenti, utenti, pazienti o ex pazienti dell’OSC forma un tessuto che vede la costruzione di tante attività. Ecco, mi sembra di poter dire che questo rappresenti la svolta nella cura della malattia psichica. Dagli anni ’60 ad oggi i passi sono stati tanti. Il grande cambiamento lo si deve alla legge sociopsichiatrica, un disegno di legge il cui padre è stato l’avvocato Marco Borghi negli anni Settanta coadiuvato da un gruppo di psichiatri, sotto l’allora Consigliere di Stato, Benito Bernasconi. Come tanti dichiarano nel documentario, questa legge ha segnato il passaggio “dal Medioevo alla civiltà”. Quali sono stati i tempi di realizzazione del filmato? “L’estate scorsa abbiamo filmato per circa tre settimane (Dino Hodic, direttore della fotografia) e in autunno è avvenuto il montaggio (montatore Samir Samperisi). L’aspetto interessante è che tutte le interviste sono state girate all’interno del Parco dell’OSC e questo aspetto tratteggia l’evoluzione di questo luogo, oggi aperto non solo ai pazienti e alle famiglie ma a tutta la popolazione. Un luogo completamente mutato rispetto a quello della mia infanzia”. Quale sarà il titolo del documentario? “Il titolo di progetto è stato “Una finestra sul parco. Dall’esclusione all’inclusione”, ma quello definitivo non c’è ancora. Potrebbe intitolarsi “Il Parco della follia” o “Parco dei matti”. Lo vedremo. Di certo c’è che il mio sogno è che la prima visione assoluta possa avvenire presto nella multisala dell’OSC, alla presenza dei pazienti e di chi ha preso parte al documentario. E, chissà, magari approdare a un qualche festival… ”.