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Anche i bambini, seppure lontani dai luoghi in cui si svolgono le guerre – in Ucraina, martoriata da oltre un anno e mezzo dalle bombe sganciate dalla Russia di Putin e nella striscia di Gaza, nei territori palestinesi occupati, dove da più di due mesi, dopo l’attacco di Hamas contro Israele, è in atto lo sterminio di migliaia di civili – non sembrerebbero immuni agli echi dei conflitti bellici: nelle parole degli adulti, nei discorsi dei “grandi”, inclusi quelli degli stessi genitori, lo spietato lessico – “bambini morti”, “bombe”, “razzi”, “ostaggi”, “fuga”, “carenza d’acqua”, “fame” – starebbe inevitabilmente pervadendo la comunicazione verbale, senza risparmiare il mondo dell’infanzia, ultimo destinatario di messaggi grevi di difficile elaborazione. Con quali conseguenze? Ne parliamo con Pierre Kahn, psicologo e psicoterapeuta di Mendrisio, esperto di psicologia dell’infanzia e dell’adolescenza.
Nella sua esperienza di psicoterapeuta, in costante contatto con bambini e adolescenti, registra nei loro racconti ansie o manifestazioni di preoccupazione legate alle situazioni di conflitto?
“Chiaramente il mio studio privato è un piccolo osservatorio. Personalmente non ho dovuto raccogliere e poi affrontare con bambini e adolescenti racconti di paure e ansie prettamente legate ai conflitti oggi in atto. Mi sono però chiesto il perché, al di là del numero limitato dei miei pazienti in rapporto ad esempio a quello dei servizi pubblici. E tra le prime mie ipotesi, la distanza da cui provengono queste tragedie ha certamente il suo peso. Perché dei tanti pericoli, in effetti l’entrata dei ladri in casa, gli incidenti stradali, gli incendi nelle vicinanze che possono succedere ogni giorno nella vita dei nostri ragazzi possono scatenare ansie e paure da un lato molto più rapidamente e dall’altro anche con effetti emotivi molto più forti rispetto alle guerre che sono lontane.
Una seconda ipotesi potrebbe essere che questa distanza dagli eventi probabilmente non fa temere emotivamente un evento che li potrebbe coinvolgere direttamente, o toccare le persone più vicine e importanti per loro, quali i genitori, i fratelli e i parenti. E questo va considerato rispetto al temere la propria morte o quella dei familiari, che è un tema presente in tanti bambini. Ma un altro elemento, che ha del paradossale, è che forse proprio perché i bambini sentono parlare di guerra dai genitori o più in generale dagli adulti, che possono ricevere delle rassicurazioni indirette da parte loro, ed evitare così che questi pensieri si trasformino in ansie o paure. Spesso i bambini, prima di parlarne con gli adulti, vogliono gestire da soli le proprie paure, oppure si chiedono se sia utile parlarne o tenerle per sé perché magari vedono i genitori già preoccupati per altre cose. Se ne potrebbe dedurre in generale che i familiari – non tutti, ma tanti – sono bravi nel gestire questi temi con i propri figli, al punto di rassicurarli. Tutto quanto viene verbalizzato è molto importante, perché evita fantasie e fantasmi”.
Quali rischi psicologici intravede per i bambini, in termini di paura e/o insicurezza, in questo particolare periodo in cui le guerre hanno assunto uno spazio sempre più preponderante nel nostro quotidiano?
“I rischi psicologici che posso intravedere sono legati al fatto che questi eventi non possono che amplificare la destabilizzazione odierna, e far aumentare le insicurezze generali che viviamo oggi e che preoccupano, a prescindere dai conflitti bellici. Questo vale sia per i bambini, ma soprattutto per gli adolescenti. Perché i giovani oggi fanno fatica a vivere il presente, a costruirsi un’entità solida sulla quale poggiare, e ancora meno riescono a proiettarsi in un futuro rassicurante nel quale costruire, emanciparsi, sognare. Questo mondo è già difficile e pervaso da tanta incertezza, nei legami familiari, nel mondo del lavoro, in incertezze finanziarie, nei legami affettivi, nella vivibilità del pianeta. Pertanto i giovani, se oltre a tutto ciò percepiscono le insicurezze e la non solidità della pace fra gli Stati, evidentemente vengono ancora più turbati psicologicamente. Ho l’impressione che tutto ciò possa solo in minima parte spiegare anche la necessità di emergere molto precocemente da parte dei giovani, il loro bisogno di essere subito qualcuno, anche se non hanno ancora competenze solide, né veramente sviluppano un vero sé. Inventano uno pseudo-sé perché hanno bisogno di essere visti, sentiti, di sentirsi qualcuno, e di essere veramente ascoltati. Un aspetto che oggi passa tanto e velocemente attraverso i social a disposizione, talora anche abusandone”.
Come va elaborato e contestualizzato il tema della guerra con i bambini? Che cosa si può dire e cosa no? Per molti di loro, l’accoglienza della Svizzera e dunque del Ticino delle famiglie ucraine colpite dalla guerra ha significato potersi rapportare, a scuola e nella vita sociale, con coetanei confrontati con situazioni drammatiche. Come va affrontata questa esperienza di confronto?
“Ritengo che questo confronto con ad esempio i bambini ucraini – complicato per il vissuto drammatico che questi nostri figli ascoltano attraverso i loro racconti – sia comunque qualcosa di utile. La guerra, come tanti altri temi difficili o delicati – penso alla violenza in generale, alle separazioni, ai divorzi, alla morte, alla sessualità – vanno sempre affrontati con i nostri figli. Non è facile, ma è meglio discuterne. Credo inoltre che il conflitto bellico, con tutte le tragedie che sono le sue appendici, offra però paradossalmente una grande opportunità. Mi riferisco ora a un tema diventato sempre più preoccupante anche alle nostre latitudini e del quale oggi i media si occupano purtroppo con sempre maggior frequenza: l’argomento è il passaggio all’atto attraverso modalità comportamentali di aggressività verbale e non verbale. Quindi la guerra, che è l’espressione massima della violenza, può permetterci di parlare ai nostri figli e ai nostri adolescenti degli effetti di questi atti. Sempre meno oggi ci interroghiamo su cosa l’Altro possa vivere e soprattutto provare dopo che abbiamo oltrepassato i limiti, non siamo capaci di immedesimarci nell’Altro e ascoltiamo solo i nostri impulsi, non valutando sufficientemente le devastazioni fisiche e soprattutto psicologiche che possiamo arrecare all’Altro. Il fatto di farli riflettere e pensare, forse potrà permettere che almeno alcuni di questi ragazzi possano frenare in tempo l’aggressività e non si lascino trascinare per esempio dalle proprie pulsioni sessuali, dai propri bisogni egoistici o dalle prevaricazioni violente di bullismo che causano delle gravi ripercussioni sui pari in termini di sofferenza, difficile da lenire anche dopo tante sedute terapeutiche da parte di uno specialista”.