Che cosa spinge gli esseri umani a fare la guerra, sebbene conoscano il disastro che essa rappresenta? Che cosa li rende incapaci di rifiutarla quando, ormai, ci sono finiti dentro e ne subiscono tutte le conseguenze, da civili e da combattenti, oppure quando la osservano da lontano? Perché caschiamo sempre nelle trappole che essa, con infinite astuzie, ci tende? Perché, insomma, non riusciamo a non fare la guerra?
Sono queste le domande che Gianluca Grossi si portava dentro da tempo, maturate durante la frequentazione ravvicinata dei campi di battaglia: oggi le affronta nel suo nuovo libro, Sulla guerra. Perché non riusciamo a non farla, edito dalla casa editrice ticinese REDEA e che verrà presentato domani, sabato 10 giugno a partire dalle 16 alla libreria Dal Libraio di Mauro Paolocci a Mendrisio. Questa sarà per l’autore l’occasione per incontrare le lettrici e i lettori e per un firmacopie.
Ma torniamo al libro. La pubblicazione, di strettissima attualità, intreccia riflessioni e confessioni intime di un reporter che per anni ha raccontato, filmato e fotografato la guerra «standole dentro fino al collo, anzi oltre».
Sullo sfondo del conflitto in Ucraina, di altri conflitti cronici o appena divampati e attraverso il racconto delle cose viste e capite al fronte, degli episodi vissuti in prima persona, l’autore spiega la guerra da un punto di vista assolutamente originale, senza concedere sconti nemmeno a se stesso nell’istante in cui riconosce di avere avuto bisogno della guerra, in passato, per sentirsi vivo, di averla cercata per dare un senso alla propria esistenza. Una pubblicazione controcorrente, lucida ed evocativa, per smascherare e smontare i tragici trabocchetti che la guerra ci tende, trasformandoci nei suoi volonterosi servitori. L’autore ne è convinto: riconoscere l’imbroglio della guerra permette di farla a pezzi, privarla della nostra accondiscendenza e così di costringerla ad alzare bandiera bianca. È la guerra stessa, suggerisce Gianluca Grossi, a rivolgere agli esseri umani l’implorazione a essere considerata una realtà impensabile e quindi impossibile.
Per l’occasione all’autore abbiamo posto alcune domande.
Cosa ti ha spinto a scrivere questo libro?
La constatazione di attraversare un periodo storico nel quale ci viene fatto credere che la guerra non sia ciò che, in realtà, è. La guerra è fatta di terra intrisa del sangue di giovani uomini, molti dei quali non torneranno mai più dalle loro famiglie, o ci torneranno senza le braccia e le gambe, di corpi fatti a pezzi, irriconoscibili, di urla di dolore che è impossibile immaginare, di madri alle quali la guerra ha stappato i figli, appena nati o che da poco avevano iniziato a camminare, a parlare. Da quando la Russia ha invaso l’Ucraina, l’Occidente ha deciso che gli ucraini avevano soltanto una possibilità per ritrovare la pace: combattere con le armi che le sarebbero state fornite. Per convincere anche noi, spettatori lontani, che non esisteva un’altra possibilità (diplomatica, negoziale, politica) i governanti occidentali hanno prodotto un’immagine diversa della guerra, un’immagine truccata: quella del sacrificio del popolo ucraino in difesa dei valori nei quali l’Occidente si riconosce. In molti ci sono cascati.
Cosa ti ha portato a lasciare il giornalismo di guerra?
Non l’ho mai lasciato. Ho però deciso, a questo punto della mia vita, che fosse giunto il momento non più di raccontare la guerra da vicino, sul terreno, ma di pensarla. Per me era indispensabile farlo, umanamente e intellettualmente parlando. È impossibile fare entrambe le cose. Volevo consegnare al pubblico ciò che credo di avere capito della guerra e rispondere alla domanda perché non riusciamo a non farla, sebbene conosciamo tutto della guerra, sappiamo che cosa succede sui campi di battaglia. Basta aprire un libro, guardare un documentario. Nel mio, di libro, scrivo che se oggi mi trovassi di nuovo di fronte a una bambina ferita da una bomba o senza vita, a una madre impazzita di dolore, a un soldato stralunato non riuscirei ad alzare la mia telecamera o la mia macchina fotografica. Quell’azione non darebbe più un senso alla mia vita, come invece lo ha dato per tanti anni. Questo senso lo devo cercare altrove: soltanto scrivendo sulla guerra ho l’impressione di potere smascherare le sue trappole e contribuire a smontarle.
Per quanto tempo sei stato a guardare la guerra in faccia?
Anche in questo caso: credo di non avere mai smesso di guardarla in faccia. Lo faccio anche quando scrivo. Sul terreno ho trascorso parecchi anni. Ho sempre fotografato e filmato io le scene che ho mostrato al pubblico: ero quindi sempre vicinissimo alla manifestazione della guerra e alle sue conseguenze, senza filtri e senza rete. Raccontare la guerra richiede a chi lo fa per mestiere un prezzo: non si torna da una guerra uguali a prima, nemmeno da giornalista. Se lo si fa per anni qualcosa finisce in pezzi. Rimetterli insieme richiede un bel po’ di tempo, senza garanzia di successo.
Se prima l’adrenalina la trovavi in quei posti, ora dove la trovi?
Pensare, ragionare, scrivere produce molta adrenalina. Più di quanto si possa credere. È un’adrenalina diversa da quella che mi circolava in corpo sui campi di battaglia? Non ne sono sicuro. In entrambi i casi è una questione di sopravvivenza.