Il Teatro d’architettura all’interno del Campus dell’Accademia di Mendrisio, ma anche i ripari fonici alberati a Chiasso (a ridosso della frontiera), la porta di Mendrisio e poco distante il Centro di Pronto intervento, Piazzale alla Valle nel cuore della Città e il Fiore di pietra sul Monte Generoso. Il Mendrisiotto reca in molti luoghi la firma prestigiosa di Mario Botta. L’architetto domani 1 aprile compie 80 anni. Come si sente? “Bene, abbastanza bene… ma sono trascorsi in fretta questi miei anni”.
È nato nel ‘43 a Mendrisio ed ha compiuto i suoi studi fra Milano e Venezia per iniziare la sua carriera a Lugano realizzando case unifamiliari. Oggi tutto il Ticino vanta opere firmate dall’importante artista ticinese. Solo qualche esempio? La Chiesa di Santa Maria degli Angeli al Monte Tamaro, la nuova Valascia di Airolo e la Chiesa di San Giovanni Battista nel paesaggio di montagna di Mogno. Mario Botta, con le sue opere ed il suo insegnamento spazia in tutta la Svizzera e in ogni parte del mondo con tipologie diverse fra cui anche edifici amministrativi, scuole, biblioteche e musei. Citiamo il MoMA di San Francisco (nel 1995) e il MART di Rovereto nel 2002, nonchè nell’ultimo decennio alcuni edifici sacri fra i quali la Cattedrale di Evry e una Sinagoga a Tel Aviv. Ama il suo mestiere e ne parla sottolineando il côté umanista, il legame che si instaura con il territorio e l’equilibrio necessario per dialogare con esso. Dal macro torniamo al micro: che legame ha avuto ed ha tuttora con il suo territorio? “Lo vivo intensamente, soprattutto per quella che è la luce del nostro territorio-Mendrisiotto che è un privilegio unico. È la luce mediterranea. Quando scendo dal resto del Ticino e mi trovo fra il Monte Generoso e il San Giorgio, mi si apre davanti la pianura padana e mi viene incontro la luce mediterranea. È una luce che connota l’identità del territorio. L’apertura che indica il Mediterraneo è quella che spinge i vacanziferi. Fa parte della natura dell’uomo andare verso una luce che è anche cultura mediterranea. Io lo sento in maniera molto forte, ne ho una percezione fisica”. Quindi è un po’ nella nostra genetica? “Sì, uno che nasce da queste parti ce l’ha nel DNA, è una forma di vita, di cultura, ce l’abbiamo nel sangue. Credo sia una sorta di connotazione che è legata alla storia di questo nostro paese. Noi guardiamo più all’Italia che al Nord. Anche quando seguiamo i canali dei media, facciamo più riferimento alla cultura italiana, ai fatti che accadono oltre confine”. Possiamo parlare di progetti? C’è un’idea o un disegno che sta per nascere? “Preferisco dire che nello studio sento la crisi dei progetti. Viviamo in un contesto in cui si sommano scenari di crisi, dalla guerra alla pandemia e al cambiamento climatico. Attraversiamo un periodo che mai avremmo immaginato di vedere e c’è come un sentimento di attesa. La gente sta a vedere dove va a finire il mondo e in questo contesto anche il costruire ne risente. In una condizione di incertezza, il costruire e trasformare richiede che i committenti abbiano fiducia nel domani. Invece avvertiamo una certa sfiducia nel futuro da parte di committenti sia privati che pubblici. Una condizione che solo 3 anni fa non conoscevamo nel nostro mestiere. Abbiamo sempre avuto abbondanza di lavoro ma ora assistiamo ad una crisi, una carenza di mandati. È un momento difficile per gli architetti. Ed io questo clima di sfiducia e incertezza lo sto conoscendo a 80 anni e ci faccio fronte perché devo continuare a lavorare: è il mio modo di vivere. Io non faccio vacanze! È sempre stato così. La mia vita è il mio lavoro, oltre alla famiglia ed ai nipoti che sono il modo più bello per guardare al futuro”.