
Le nostre tragedie tutte raccolte: i migranti, le guerre – antiche e nuove – il clima, con le montagne che si sciolgono e sgretolano. La terra trema nella pittura di Cesare Lucchini, il grande e instancabile artista ticinese, oggi 82enne. E il sintagma dà il titolo alla potente mostra antologica che s’inaugurerà domani, sabato 25 marzo alle 17 al Museo d’arte di Mendrisio alla presenza del pittore, e da domenica 26 marzo potrà essere visitata fino al 25 giugno.
“Lucchini elabora ed eleva il dolore ma con processi antitetici: i colori, ad esempio, sono delicatissimi e poetici, quasi trascendenti anche quando narra le grandi tragedie. Il gesto, in questi sessant’anni di produzione, è rimasto sempre lo stesso”. Così illustra la cifra della pittura dell’artista la direttrice e curatrice dell’esposizione, Barbara Paltenghi Malacrida, che ci guida negli spazi appena allestiti: una cinquantina di tele di grandi dimensioni, tra cui diversi dittici e una ventina di opere su carta. “Con questa mostra porto avanti il discorso su cui il museo ha lavorato negli ultimi vent’anni, ossia dedicare monografiche ad artisti ticinesi e svizzeri contemporanei. Quest’anno è il caso di Cesare Lucchini, che personalmente conosco da quando ero bambina e che ho sempre ammirato. Cesare non ha mai avuto in Ticino una vera e propria mostra antologica – è stato sì esposto in esposizioni importanti, al Museo cantonale, a Casa Rusca – ma esclusivamente con dei cicli della sua pittura. La mostra di Mendrisio, dove non ha mai esposto, vede rappresentati tutti i suoi cicli più importanti. Dalle primissime opere degli anni Settanta fino al dipinto appena ultimato che sa ancora di vernice”.
Ogni dimora è stata essenziale nel percorso dell’artista. “Biograficamente – evidenzia la direttrice del Museo d’arte di Mendrisio – la vita e la carriera di Lucchini si muovono attorno a tre grandi poli: il Ticino, dove nasce e compie i suoi primi studi; Milano, dove studia all’Accademia di Brera, diplomandosi nel 1965, e restando nel capoluogo italiano per i successivi 20 anni; e la Germania, dove decide di trasferirsi nella seconda metà degli anni Ottanta fino ai primi anni Duemila. A ogni tappa corrisponde un nuovo ciclo. La mostra, di sala in sala, si sviluppa cronologicamente. Il catalogo è invece stato concepito come una vera e propria monografia, in cui i saggi ospitati parlano di tutto il periodo lucchiniano: Giuseppe Frangi, grande storico dell’arte, esperto della scena artistica milanese del dopoguerra; Matthias Frehner, già curatore della grande retrospettiva di Lucchini organizzata al Kunstmuseum di Berna nel 2016, narra la parabola dell’artista con particolare attenzione agli anni in Germania; e poi c’è un mio saggio rivolto quasi esclusivamente alla produzione degli ultimi cinque anni di Lucchini. L’esposizione ha invece un taglio più trasversale: benché si sviluppi secondo un andamento cronologico, la nostra idea è stata quella di porre in ogni sala un’opera dell’ultimo periodo dell’artista. Questo permette al visitatore di compiere raffronti e di cogliere la straordinaria coerenza di linguaggio, piuttosto rara in una carriera sessantennale”.
Come possiamo definire la pittura di Lucchini? “È una pittura aspra, drammatica. Se nei primi anni milanesi, Lucchini parla di se stesso, con opere legate ad ambienti chiusi – il suo atelier – a partire dalla metà degli anni Ottanta l’artista si rivolge all’esterno e la visione di una foto drammatica sull’Apartheid pubblicata su “Epoca” lo colpisce, tanto che per i successivi 40 anni ha dedicato praticamente ogni tela alle tragedie e ai drammi della società, davanti ai quali Cesare è incapace di restare distaccato. Quindi dai problemi climatici a quelli dei migranti, alle segregazioni, alla sua celebre opera del cormorano coperto di petrolio, ispirata al disastro ambientale avvenuto nel Golfo del Messico. Non è un artista informale né espressionista, bensì figurativo, perché il suo stato d’animo non cambia il suo punto di osservazione. È anche debitore della Pop art, per poi arrivare a dedicarsi ai vinti, agli ultimi, ai resti. Dal 1986 inizia a elaborare una pittura dove la tragedia si lega al tema della croce, raffigurando i martiri della società. Altre tele s’intitolano, Il giorno della memoria, quindi il tema dell’Olocausto. C’è una delle sue serie più famose, Quasi una testa, che rivela che cosa l’artista era andato a cercare in Germania, con il confronto con i “Neuen Wilden” (gruppo d’artisti neoespressionisti tedeschi attivi negli anni Ottanta in cui avviene il recupero della figura umana, ndr.) – dove la figura diventa testa, teschio. È influenzato anche da Basquiat”.
E tutte le opere create dopo la mostra del 2016 di Berna sono un inedito mai esposto. “Gli ultimi quattro-cinque anni rappresentano un’altra chiave di volta. Soprattutto appare la montagna, per nulla rassicurante, cupa. Per arrivare alla serie finale e splendida, intitolata La terra trema, metafora del degrado di questo nostro pianeta, dove non c’è più traccia della figura umana, restano solo le impronte”.