• (p.z.) Il cambiamento climatico, quanto può influenzare una migrazione? Di regola i fattori che determinano gli spostamenti di un popolo sono molteplici e fra di essi vi possono essere ragioni economiche, livello sociale o conflitti bellici. La multicausalità la vediamo riflessa anche nei rifugiati che bussano oggi alle porte dell’Europa. Ma il clima che si riscalda – anno dopo anno, grado dopo grado – in che misura può spingere delle famiglie a far fagotto? Questo il quesito che ha portato Geremia Cometti in un Paese che negli ultimi 30 anni ha perso oltre il 30% della sua copertura glaciale: il Perù.
Trentadue anni, antropologo, residente a Corteglia, Geremia Cometti arriva direttamente da Parigi quando lo incontriamo e, con il suo zainetto sulla spalla destra ed il suo modo di porsi molto spontaneo, dà subito a vedere di essere abituato a viaggiare, ad adattarsi alle situazioni e ad incuriosirsi. Pone sul tavolo “Lorsque le brouillard a cessé de nous écouter”, il libro di argomento scientifico che ha pubblicato quale elaborazione della sua tesi di dottorato. Ora lavora – come post-dottorato – al Laboratoire d’Anthropologie Sociale presso il Collège de France di Parigi. Il 17 gennaio sarà premiato a Castello per meriti scientifici.“Era mezzogiorno quando Guillermo decise d’installare la tenda davanti all’Apu Wamanlipa. Abbiamo preparato da mangiare e poi abbiamo montato la tenda. Guillermo scelse allora un luogo per preparare la cerimonia: “Chiederemo all’Apu Wamanlipa il permesso che tu possa entrare a Q’ero. Ti proteggerà durante il tuo soggiorno a Q’ero”. È questa una citazione tratta dalla pubblicazione di Geremia Cometti sui propri viaggi e le proprie ricerche antropologiche in Perù. Cosa accadde poi? Si spostarono su una piccola collina e aprirono uno dei due sacchetti cerimoniali acquistati al mercato di Cuzco. (…) “Con una preparazione di circa 30 minuti – scrive l’antropologo – l’offerta per la montagna denominata Apu Wamanlipa era pronta quando – improvvisamente – una forte pioggia accompagnata da grandine s’abbatté su di noi. “Te l’avevo detto, il Wamanlipa sta mostrando la propria forza” mi gridò Guillermo mentre cercavamo un riparo per proteggerci”. Istanti di un’esperienza che è divenuta ricerca e dottorato. Ne parliamo con Geremia Cometti.
Come sei arrivato a questo traguardo? Da dove sono iniziati i tuoi studi?
All’inizio ho studiato Scienze politiche a Bologna. Poi ho realizzato un master in Studio sullo sviluppo a Ginevra e poi sempre a Ginevra ho avviato il dottorato presso l’Istituto di Alti Studi Internazionali e dello Sviluppo. Il primo anno sono rimasto alla base. Il secondo anno – era il 2011 – sono partito per la prima volta per il Perù e vi sono rimasto 7 mesi. In seguito, lavoravo come assistente d’insegnamento presso l’Istituto e durante l’estate tornavo in Perù. In totale ho compiuto sei viaggi. Il lavoro di dottorato l’ho portato a termine nel 2014.
Cosa hai trovato in Perù?
Mi sono concentrato sulle comunità Q’eros stanziate nelle Ande peruviane. Questo popolo controlla tre livelli ecologici: quello più alto situato a 3’800 – 4’500 metri per occuparsi degli animali ovvero lama e alpaca (molto preziosi per la fibra), il livello medio a quota 2’500 – 3’800 metri di altitudine dove coltivano diversi tipi di tubero (vari tipi di patate) e infine il livello più basso fra i 1’550 e i 2’500 metri (praticamente all’entrata dell’Amazzonia) dove coltivano il mais .
I gruppi familiari si suddividono i livelli oppure si spostano tutti a seconda delle stagioni?
Si muovono a seconda delle stagioni e delle esigenze delle loro attività, anche se qualcuno resta sempre in alto dove vi sono varie case.
Allora se parliamo di stagioni, come sono mutate?
Piove molto di più nella stagione delle piogge (che si estende da dicembre ad aprile) ed il clima è molto più secco di prima durante la stagione asciutta (da maggio a ottobre/novembre). Questi cambiamenti causano parecchi problemi alla produzione di patate e mangime; inoltre i piccoli di lama e alpaca sopportano male una maggior quantità di piogge.
Sono dunque questi disagi a spingere i Q’eros ad emigrare soprattutto verso la città di Cuzco?
In realtà, loro sono abituati a vivere in un clima ostile. La ragione che li spinge maggiormente ad emigrare verso la città di Cuzco è il turismo che qui è letteralmente esploso negli ultimi anni.
In che senso?
Si sta sviluppando il turismo cosiddetto “mistico”. Migliaia di turisti approdano a Cuzco – che si trova fra le Ande e la foresta amazzonica – per provare delle esperienze mistiche con gli sciamani dell’Amazzonia che usano piante psicotrope oppure sperimentare delle ricerche spirituali con sciamani come i Q’eros. Partecipare alle cerimonie, farsi leggere il futuro con le foglie di coca. Una mercantizzazione dei riti. Sempre più gente è interessata a questo fenomeno. E il paradosso è costituito dal fatto che questa forma di turismo porta risorse economiche e una sorta di mescolanza fra culture: si finisce con l’incontrare questi sciamani dell’Amazzonia che operano con le piante allucinogene e offrono percorsi spirituali con pulizia energetica del corpo, mentre squilla loro in tasca il telefonino. Gli sciamani si avvicinano alla tecnologia e i turisti sono in fuga da una dimensione consumistica e da un ambiente inquinato. Tuttavia devo dire che la seconda ragione che li spinge a migrare è l’educazione dei figli: c’è quest’idea di ignoranza diffusa nella comunità.
Di quali nazionalità sono i turisti a caccia di emozioni mistiche?
Vengono dalla Francia, dagli Stati Uniti e anche dalla Svizzera. Poi vedo anche diversi tedeschi, argentini, brasiliani e cileni.
Come ti sei integrato? Ti hanno accettato con le tue ricerche?
Mi chiamano gringo! All’inizio non è stato facile: mi percepivano come l’ennesima persona che cercava un turismo mistico. Poi l’uomo che rappresentava il mio punto di riferimento per le ricerche ed il mio soggiorno, ha organizzato un’assemblea per spiegare loro che non venivo dal Governo e non ero un turista. Ero uno studente svizzero, semplicemente. Allora, mi hanno accolto e devo dire che si è creato un legame forte. Sono padrino di tre bambini e uno di questi me l’hanno messo in braccio che aveva appena due settimane, chiedendomi di scegliere io il suo nome! Ogni anno sanno che torno.
Hai imparato la lingua.
Sì, ho imparato un po’ di quechua ma soprattutto comunico in spagnolo con i più giovani.
Come vedi il tuo futuro?
Il mio obiettivo è quello di cercare di restare nella ricerca. Insegnare, continuando a fare ricerche. Quando sei nell’antropologia, dopo i 40 anni si viaggia di meno ma puoi crescere tramite i tuoi studenti. Uno dei miei professori una volta mi ha detto: “L’80% delle cose che ho imparato nella mia carriera, me le hanno portate a casa i miei studenti”.
L’antropologia è… Come finiresti la frase?
… una disciplina che fa parte della vita di tutti i giorni. Ed è anche un canale che mette in contatto il nostro mondo occidentale con il resto del mondo. La crisi del sistema occidentale, i cambiamenti climatici, l’inquinamento, il consumismo… anche noi possiamo guardare a loro per capire che dobbiamo rallentare.
Il clima che cambia e ci impone delle mutazioni nella vita è sempre stato un tuo tema forte.
Il mio lavoro di master si è concentrato sulle isole che stanno scomparendo nel Pacifico. Mi sono posto la domanda: quale soluzione giuridica per uno Stato che sta scomparendo a causa dell’innalzamento del livello del mare? Quali diritti possono valere per delle popolazioni che rimangono senza terra?
Che qualità deve avere un giovane per darsi all’antropologia?
La curiosità, la voglia di scoprire l’altro, di capire le differenze. Quello che per noi appare come un cambiamento naturale, per loro può essere anche una mutazione culturale. A volte si fanno progetti di aiuto molto nobili ma che non prendono sufficientemente in considerazione il vero cambiamento della società. Anche le ONG (Organizzazioni Non Governative) i cui scopi sono a favore dello sviluppo di popolazioni in difficoltà, con tutti gli aiuti che indubbiamente portano, in alcune situazioni faticano ad uscire dalla loro visione occidentale dei problemi. Anche in casi del genere, l’antropologo potrebbe fare da tramite.
Una figura oggi più che mai preziosa viste le tensioni fra civiltà, religioni, continenti.
Sì, ma a volte anche considerata scomoda, quando prevale una politica di chiusura.
Come giudichi il successo attuale delle posizioni populiste in Europa?
C’è un clima generale di tensione a livello europeo. È frustrante, a volte, la pochezza di analisi che c’è nei confronti della diversità. I viaggi mi hanno permesso di aprire gli orizzonti e di conoscere l’accoglienza che ti riserva la gente in molti Paesi.