• Sa.Gr.) In dialett parchè l’abia mia da murì. Prima da parlà in dialett bisögna lavà ben la boca.
Così si legge nella seconda di copertina: “Siamo tornati in un mondo irreale, vissuto tanti anni fa, ma scolpito nella memoria. La malinconia non ha però avuto il sopravvento, siamo consci di trovarci in zona parcheggio, ma sappiamo tener duro. Il nostro arrivederci ha la tempra dell’acciaio”.
È stato presentato domenica pomeriggio in casa anziani Torriani 2 di Mendrisio il libro di Antonio Allevi, edito dalla Tipo Offset Chiassese di Balerna, intitolato “Quatar ciaciar in dialett”. Per l’occasione abbiamo incontrato l’autore che, sotto il bersò della casa anziani in Largo Bernasconi 4, ci ha raccontato alcune chicche della sua vita e della sua grande passione: il dialetto.
Leggendo la biografia di Allevi notiamo subito che “Antonio Allevi detto Mario nasce a Novazzano nel 1925; il papà Achille è manovale e la mamma Giuseppina casalinga”. Da qui lo spunto per toglierci una curiosità: signor Allevi, come mai è detto Mario?
“Una gabola di mio padre… si è sbagliato a notificare il nome. Il giorno della mia nascita si recò a casa del segretario (un tempo era lì che bisognava andare ad annunciare il pargolo) e con molta probabilità ha confuso la sequenza dei nomi, che dovevano essere Mario Antonio Carlo Allevi. Tutti quindi mi hanno chiamato Mario. Ci siamo accorti dell’errore solo quando mi arrivò il libretto del militare, lì c’era scritto Antonio”.
Sempre dalla sua breve biografia scopriamo che “all’età di otto anni, accompagnato dalla maestra G. Luisoni, si reca alla Scuola Maggiore per leggere un suo componimento particolarmente riuscito; nello stesso anno la famiglia si trasferisce a Balerna”. Signor Allevi, come nasce la sua passione per il dialetto?
“Premetto che il dialetto che parlo io correntemente non è quello con cui mi sono espresso nel libro. Quello è più elaborato… Sono cresciuto parlando dialetto, l’italiano l’ho imparato leggendo i giornali e dai miei fratelli più grandi. Non so… il dialetto ce l’ho nel cuore e mi so esprimere meglio in questa lingua”.
Tornando alla storia della vita di Allevi veniamo a conoscenza che “terminata la scuola dell’obbligo i genitori lo avviano all’apprendistato di sartoria, professione che porterà avanti fino alla pensione, prima come sarto da uomo, in seguito come tagliatore presso diverse aziende tessili di Mendrisio. Nel 1956 sposa Giuseppina e si trasferisce a Mendrisio; dall’unione nascono i figli Tiziano e Waldo”. Come hanno preso la pubblicazione di questo libro i suoi figli?
“Sono orgogliosi di me. Tutta la mia famiglia sa il dialetto e ne sono contento. Domenica c’era soltanto uno dei miei figli alla presentazione, l’altro purtroppo aveva già organizzato le ferie. Ma sono felice comunque”.
Dalle sue memorie apprendiamo che “all’inizio degli anni Duemila Antonio perde un caro amico che scriveva poesie in dialetto bosino (che non è altro che quello che si parla nel Varesotto), da quel momento sente il dovere di seguire l’esempio dell’affezionato Giampiero, in un simbolico passaggio di testimone riprende in mano la penna e decide di raccontare il Mendrisiotto che fu”. Come vi siete incontrati, lei e Giampiero?
“Eravamo appassionati di pesca. Al Club ho incontrato Giampiero e con lui, oltre ad essere diventato un grande amico, anche il dialetto bosino. Così ho scritto la prima poesia “Mendris… e pö Paris”, che mi ha dato tante soddisfazioni. In seguito sono nate altre poesie, come le ciliegie… “una tira l’altra”. Quando Giampiero se ne andò io continuai con le poesie… quasi fosse un tributo a lui e al dialetto”.
In che maniera continuò?
“All’inizio venivo nella casa anziani Torriani di Mendrisio a trovare gli amici e a leggere le mie poesie. Qui incontrai l’animatrice Lucia che mi propose di venire a leggere i miei scritti anche agli altri ospiti, e furono molto apprezzate”.
Dal dicembre 2012 Antonio vive nella Casa Anziani Torriani di Mendrisio. E proprio qui è riuscito a coronare il suo sogno. Ci racconta come è nato “Quatar ciaciar in dialett”?
“Il vero deus ex machina è Lucia. Prima la proposta di lettura, poi la richiesta di “farle vedere” le mie poesie ed infine la pubblicazione di questo libretto di memorie. Mancava la cosiddetta granaglia, ma poi è arrivato uno sponsor (che vuole mantenere l’anonimato, ma che ci tengo a ringraziare di cuore: senza di lui non avrei potuto realizzare questo sogno) e non solo. Ringrazio infatti tutti: l’anomino, Franco Lurà (il signore del dialetto), il direttore della casa anziani Lino Bernasconi, l’animatrice Lucia, la Fondazione della casa anziani Torriani e ovviamente tutti quelli che lo leggeranno, qualunque sia il loro giudizio.
Prima di congedarci da questa preziosa chiacchierata (sì, perché Allevi è un momò DOC e ha una memoria storica di Mendrisio e dintorni spettacolare, ndr.) chiediamo a Marco/Antonio Allevi: “come nascono le sue poesie?”.
“Alcune su commissione, altre dalle mie idee. Dipende. Alcune sono buffe, altre sono più “impegnate”. In fondo al libro ho inserito un mini-dizionario perché alcune parole dialettali che uso sono arcaiche e non più in voga. Lei sa che vuol dire balin?
Alla domanda ho subito pensato al famigerato boccino, usato nello sport del viale… ma Allevi mi consiglia di leggere la sua poesia, “per capire meglio”, mi dice. E io comincio… “Tütt pensaran che sum dré a parlà dal giöc di bocc, ma i bocc chi ga centran par nagott. Ul balin a l’è quel sit indué che la sira cui oss rott sa bütavum là, par passà la nott”. Dall’inizio della poesia comprendo subito di cosa si tratta, ma ovviamente mi congedo dal nostro interlocutore solo alla fine di “Ul balin”.